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Archivio TAN

di Roland Schimmelpfennig
traduzione di Marcello Cotugno e Suzanne Kubersky
con Valentina Acca, Valentina Curatoli, Emanuele Valenti, Aldo Ottobrino
regia colonna sonora e luci Marcello Cotugno
scene Sara Palmieri
costumi Ilaria Barbato
aiuto regia Martina Gargiulo
assistente alla regia Chiarastella Sorrentino
datore luci Mattia Santangelo
la foto della locandina è di Ludovica Bastianini
una produzione Teatri Associati Napoli con il contributo del Goëthe Institut

Note di regia

Peggy Pickit, una satira feroce che mette in luce la complessità e l'intrinseca contraddittorietà dello sguardo occidentale sul continente africano, è parte della Trilogia Africana di Roland Schimmelpfenning, che ha debuttato a Toronto nel 2011.
Karen e Martin tornano a casa dopo aver trascorso sei anni lavorando nello staff di un’organizzazione come Medici senza frontiere in un paese africano non ben definito. Al loro ritorno, vengono invitati a cena dai loro vecchi amici Liz e Frank. Le due coppie si erano incontrate alla facoltà di medicina ma da lì in poi le loro vite avevano preso percorsi estremamente differenti. Mentre Karen e Martin hanno scelto di prestare assistenza medica in luoghi di estrema povertà, Liz e Frank hanno invece esercitato la loro professione inseguendo obbiettivi più tradizionali: la carriera, il guadagno, la costruzione di una famiglia. A legarli in questa lunga distanza, la presenza di una bambina, Annie, che Liz e Frank hanno adottato a distanza, e di cui Martin e Karen si sono presi cura durante la loro permanenza in Africa. Durante la cena, l’alcool inizia a scorrere e fa emergere incomprensioni e gelosie reciproche tra le due coppie. Protagoniste inerti dell’azione diventano inaspettatamente due bambole. La prima, Peggy Pickit (che dà nome all’opera), è un costoso giocattolo di fabbricazione occidentale destinato da Liz e Frank ad Annie, l’altra è una semplice bambola artigianale di legno, portata in dono dall'Africa da Karen e Martin per Katie, la figlia biologica dei loro amici. Le due bambole diventano il simbolo dell’enorme divario tra il capitalismo avanzato del mondo occidentale e la povertà dei paesi in via di sviluppo. Un divario incolmabile sottolineato anche dal racconto che Liz fa di una lettera che Katie ha scritto per Annie, tentativo, forse impossibile, di gettare un ponte tra due realtà troppo lontane. Attraverso i toni a volte ironici, a volte dolorosi di questa commedia amara, il conflitto che anima azioni e relazioni in scena diventa dunque metafora di un'inquietudine esistenziale tipica del contemporaneo. Da un lato le due coppie rispondono al richiamo di un'affannosa ricerca di identità e di ruolo nella società (come medici e come individui), richiamo a cui forniscono risposte diametralmente opposte. Dall'altro, dietro a una contrapposizione che potrebbe superficialmente leggersi come uno scontro buoni/cattivi, emerge una riflessione più acuta e pessimista sul relativismo dei valori, sul confine sottile tra bene e male, compassione e pietà e, non ultimo, sul senso di colpa dell’Occidente e sul paternalismo assistenzialista che permea il rapporto tra l'Europa e le ex colonie. Schimmelpfenning riesce a superare il cliché della commedia su quattro vecchi amici che si ubriacano a cena e straparlano, attraverso l’uso dello straniamento brechtiano. Durante l’azione, i protagonisti spesso si rivolgono al pubblico per esprimere il loro punto di vista, mentre tutto ciò che li circonda rimane sospeso, congelato. Il nostro progetto abbraccia questa dimensione brechtiana, utilizzando l'artificio stilistico della rottura della quarta parete per enfatizzare l’elemento didattico del testo, pur mantenendo l'intensità della dimensione relazionale, fulcro del rapporto tra i quattro personaggi in scena. Anche la ripetizione delle battute diventa un mezzo per rielaborare da diversi punti di vista la scena che abbiamo appena visto, come per concedere ai personaggi il tempo di riaggiustare le loro maschere civili nei confronti degli altri attori, ma anche del pubblico stesso. Una scena calda ed accogliente, in contrasto con il crescente disagio dei personaggi durante lo scorrere della serata ma allo stesso tempo accopagnata da elementi ad essa avulsi (microfoni ed una loop station) che scandiscono, inerrompono e commentano l’azione; costumi naturalistici che rimarcano le differenti scelte di vita delle due coppie, musiche sincopate che intercettano le ultime tendenze dell’elettronica, da Miss Kittin a Frank Bretschneider, passando per i territori contaminati dei Penguin Cafè per arrivare alle sonorità post-romantiche del remix di Be my Baby di DM Stith e del piano di Joep Beving; le luci tagliate e puntiformi, che conducono verso una dimensione a metà tra espressionsimo e naturalismo, mutuata e rielaborata dalla cinematografia anni ’20/30 di registi come Pabst, Wiene e Dreyer e da uno stile teatrale che ha i suoi padri in autori come Kröetz, Botho Strauss e Fassbinder.

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